Non un inno al voyeurismo ma una riflessione sul ruolo della geologia nella percezione del paesaggio, aspettando l'Autorizzazione paesaggistica e le Commissioni previste dal Codice del paesaggio che, salvo ulteriori proroghe, saranno operanti dal 1 luglio '09.
Il Codice vuole che la Regione promuova l'istituzione e disciplini le Commissioni locali per il paesaggio, in Toscana il controllo e la gestione della tutela paesaggistica è assegnata ai Comuni attraverso le Commissioni per il paesaggio, formate da «tre membri, scelti tra gli esperti in materia paesaggistica ed ambientale», da reclutare tra architetti, agronomi, ingegneri, geologi, docenti universitari etc. Alcuni Comuni sarebbero orientati a formare le Commissioni esclusivamente con figure vocate agli aspetti storici ed artistico/architettonici. Questa scelta pare figlia di una concezione pittorica, antiquata come quella del maestro cinese dell'XI secolo al quale ho estorto il titolo.
La normativa italiana scopre il paesaggio nel 1920 per iniziativa di Benedetto Croce, ministro nell'ultimo governo Giolitti, con una proposta di legge approvata 2 anni dopo. il filosofo scrive: «Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta "difesa della patria" (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall'altra, nell'aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo». La tutela del paesaggio muove dall'imperativa salvaguardia dell'identità nazionale, che troverebbe espressione nell'estetica romanità dei luoghi. Al tempo i Comuni, se avessero dovuto designare i membri della Commissione, avrebbero optato per chi destreggiava il manganello, non il martello da geologo.
La 'Legge Bottai' del 1939 esprime ancor più una concezione estetizzante e machista del paesaggio, riconoscendo la tutela solo ai beni di particolare pregio, rarità e di non comune bellezza. Nella rudezza del fascio nessuna concessione al valore proprio del paesaggio, quale ambiente e frutto dei processi naturali, oltre che antropici, ed espressione di equilibri e dinamiche peculiari con le quali convivere. La natura deve ridursi a silente testimonianza del meglio di se al cospetto dell'uomo in camicia nera, capace di bonifiche ed architetture mirabolanti.
La Carta costituzionale della Repubblica italiana (1948) pone tra i principi fondativi che la Republica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Intrinsecamente il paesaggio è ancora una categoria estetica, diversa e separata da 'territorio' e 'ambiente' (concetti ancora da radicare nel '48), assimilabile - nell'esigenza e nelle modalità di tutela - a palazzi, monumenti, dipinti. L'enorme passo in avanti dal '39 sta nel fatto che ora il paesaggio è categoria culturale, bene comune, non più strumento dell'ideologia.
La 'Legge ponte' del 1967 affaccia il paesaggio alla pianificazione territoriale: soprintendenze e Ministero sono resi partecipi dell'approvazione degli strumenti urbanistici con potere di introdurre «modifiche riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici». Tuttavia il paesaggio non ha ancora una propria individualità ma resta nel capace e ombroso grembo delle bellezze artistiche.
Nel 1985 la luce. Lo storico Giuseppe Galasso, sottosegretario al Ministero per i Beni culturali e ambientali, presta il suo nome alla nota Legge che veste di tutela paesaggistica gli elementi fisici strutturanti il territorio: le coste di mari e laghi nella fascia di 300 metri, i corsi d'acqua e le sponde per 150, le Alpi sopra i 1600 metri e gli Appennini sopra i 1200, ghiacciai e circhi glaciali, foreste e boschi, vulcani, zone umide, parchi e riserve naturali. L'imposizione all'universo mondo delle fasce di rispetto è dogmatica, per nulla scientifica, ma con la 'Legge Galasso' il paesaggio finalmente non è più l'alter ego del territorio, cala dall'aere dell'estetica per accoppiarsi con geografia e geomorfologia.
Giuliano Urbani, ministro per i Beni culturali e docente di scienze politiche, è il padre di quel Codice dei beni culturali e del paesaggio che nel 2004 distingue i 'beni culturali' dai 'beni paesaggistici', che però sono un brodo di immobili e aree costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio. Indietro da Galasso, anche per l'ambigua 'valorizzazione' dei beni, che sembra sottendere esigenze di cassa forse più che di tutela.
In fine Salvatore Settis, rettore della Normale di Pisa, docente di Archeologia, introduce nel 2008 gli emendamenti al Codice, nella veste di presidente dell'apposita Commissione. Vigorose modifiche alla parte Terza sanciscono un principio da poco ribadito dalla Corte Costituzionale: il paesaggio è un valore «primario e assoluto» che deve essere tutelato dallo Stato e prevale rispetto agli altri interessi pubblici in materia di governo e di valorizzazione del territorio. Un colosso - per l'impeto con cui emancipa il paesaggio da pelose attenzioni - dai piedi d'argilla, dato che il beneficiato è così definito: «Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali». Identikit che rivisita Croce e mutua la Convenzione Europea ratificata nel 2004, per la quale «"Paesaggio" designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle persone, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Si insinua, un po' troppo rimpiattata, la regola aurea per la quale il paesaggio è 'bene comune' (nell'ottimistico assunto che la 'percezione' sottenda cosciente e diffusa identità), ma si conficca una lancia nel costato del Geologo che, per missione esistenziale, deve spiccicare dal paesaggio l'ebbrezza filosofica che lo vuole entità estetica prodotta da letture sociologiche ('così come percepita dalle persone'). Queste definizioni lasciano che le componenti naturali, con quelle umane, non 'siano' il paesaggio, bensì questo da esse ne trarrebbe il carattere, come la coppale che rende vivida la tarsia, non la materia stessa dei monti, valli, boschi, colture, paesi. La differenza è sottilmente dialettica e profonda nella sostanza, per rappresentarla conviene scomodare Parmenide: il paesaggio, come definito, può essere doxa, cioè opinione, percezione invece di ragione, verità, aletheia, quindi disvelamento che stabilisce l'eternità delle cose del mondo, aldilà dell'apparenza, pur nella loro mutevolezza. Così la tutela non sarebbe legata alla necessità di conservare la materia del territorio ma il suo aspetto percepito, un po' come il silicone per le tette (Parmenide non se n'abbia).
Per il Geologo (categoria kantiana asessuata) - che studia Madre Terra, ne trae coscienza femminile e non ama il silicone - il paesaggio non è rappresentazione (né impegnata e nazionalitaria né lieve di estetica non trascendentale) ma esiste e si basta come sobria relazione tra le forme e ciò che le sostiene, le motiva nella genesi e nell'evoluzione. Naturale consistenza, non plastica apparenza. Non è materialismo o positivismo, forse è Goethe, che voleva una natura divinizzata ma senza trascendenza e demagogia; diceva: Dio è tutto nelle sue opere, va cercato «in herbis et lapidibus», e ometteva 'in verbis' cioè la speculazione che allontana dalla ponderatezza fenomenologica.
Relazione tra forme e ciò che le sostiene, questa regge la fisiografia naturale dei luoghi, piccolini colli o forra come orrida ferita, ma anche gli antropismi: le colture, per varietà e assetto, sono strettamente legate alla tipologia del terreno, al regime delle acque di superficie e ipogee; disposizione e soluzioni strutturali delle costruzioni tradizionali, dell'arredo urbano e dei monumenti sono condizionate dalle forme, dalla natura dei terreni di fondazione e dalle bizze delle rocce di cui sono fatti. Geologia non sorveglia solo la nascita ma segna la vita delle proprie creature, golfo di mare, monte, ma anche statua, città, in ragione della durevolezza delle rocce e dei terreni: un manufatto realizzato in Arenaria, piuttosto che in Marmo o Serpentina, ha attese conservative peculiari; le murature, i rivestimenti come i terreni di sedime, hanno vita propria in ragione della loro specifica natura. E più ancora Geologia forgia il paesaggio con il proprio maglio, quello che ne determina la faccia, la phisys, la persistenza delle grandi forme e di ciò che vi sta sopra: le dinamiche naturali, alluvioni, frane, terremoti; l'ineluttabile equilibrio tra creazione e distruzione, non irripetibile pieces di Jahvè ma serial perpetuamente in onda da 4,6 miliardi di anni. Anche qui merita affidarsi a chi sa esprimere, per dire che il Geologo legge Eraclito nel paesaggio, «Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l'uomo né le acque del fiume sono gli stessi», ogni cosa non permane mai nello stesso stato, tutto è mutamento che bisogna saper cogliere, se si vuole conservare e conservarsi.
Filosofi a parte non se ne può più del sillogismo bidimensionale paesaggio/fissa rappresentazione visuale, si recepisca la complessa interazione spazio temporale tra mille equilibri nell'unicum paesaggio/territorio/ambiente; il paesaggio non è lo sfondo che serve a provvedere la quota di PIL spremuta dal turismo o la scenografia che certifichi l'italica audacia delle avite terre ma - preso come manifestazione della complessità di cui sopra - fattore determinante la qualità della vita delle singole persone e della collettività, nel presente e nel consegnare di sempre ai figli. E non si tratta di dire nulla di nuovo, rispetto a quanto sostengono da decenni gli urbanisti illuminati; per tutti Edoardo Salzano (è stato docente di urbanistica all'Università IUAV di Venezia e preside della facoltà di Pianificazione del territorio): «Il territorio non è uno spazio neutrale e indifferente, come lo possiamo immaginare vedendo una piatta carta geografica. Il territorio è una realtà complessa, è un sistema nel quale tutte le parti sono in reciproca relazione, e un'azione su una esercita modificazioni su tutte le altre. Del territorio il paesaggio è la forma, il volto: come un viso esprime l'anima di un uomo, così il paesaggio riflette il carattere, la struttura, la storia – e infine la bellezza o la bruttezza – del territorio».
In conclusione: che le leggi sul paesaggio le firmino cotanti filosofi, storici, archeologi è forse bene, ma parrebbe davvero una salutare misura di concretezza – se il paesaggio deve essere valore primario e assoluto della collettività - che il Geologo fosse presente in ogni rango dove se ne decidono le logiche della conservazione, a partire dalle Commissioni comunali, con le altre figure che quotidianamente esercitano in herbis et lapidibus.
Mauro Chessa – al0431a@geologitoscana.net